Mettiamola così: quando suoni il basso, sembra che le note ti escano dal petto.
E forse entrano in testa anche proprio da lì invece che dalle orecchie. Quando lo spirito si fonde con la materia o la materia riesce a farsi spirito.
Escono dal cuore insomma, e da lì vi rientrano direttamente facendo vibrare tutto il corpo e l’anima, se il bassista è bravo.
Io non sono uno bravo, anzi. Non sono neanche vicino a essere uno che suona uno strumento. Però mi diverto a suonare il basso.
O – meglio – devo dire che mi divertivo, perché, una trentina di anni fa, un figlio di papà sulla sua Lancia Thema ha tamponato, a un semaforo, la Cinquecento in cui mi trovavo.
In quel momento è sembrato nient’altro che un ovvio colpo di frusta e allora il figlio di papà e la sua macchinona si sono rapidamente allontanati (non prima di avermi raccontato che “la colpa è stata tutta di questa stronza, che masticava una gomma americana e, volendola buttare fuori dalla macchina con il finestrino chiuso, l’ha fatta cadere sul tappetino e io mi sono distratto cercando di vedere dove fosse finita!”) senza che io neanche battessi ciglio, una volta concordato che doveva pagare solo i danni dell’auto. Poche lire, all’epoca. Soprattutto per uno come lui.Tuttavia, molti anni dopo, alcuni medici e io siamo arrivati alla conclusione che quell’incidente trascurato mi aveva lesionato un paio di vertebre cervicali, che hanno la funzione di proteggere i nervi, tra cui quelli che arrivano alle mani. E ora, lentamente, la sensibilità delle dita della mano sinistra se ne sta andando.
E grazie a quella diagnosi ho potuto capire perché, studiando il basso o persino suonando in qualche concerto con il gruppo che avevo, mi stancavo così tanto!
Ma la musica è sempre stata una delle mie passioni principali e i miei due bassi sono rimasti in bella mostra nella mia stanza anche quando la band si è sciolta. Ognuno per la sua strada: uno è diventato musicista professionista, altri sono tornati alla loro professione diversa da quella musicale, un altro ha aperto un negozio di musica, un altro ancora ha inciso un disco con altri musicisti.
Eppure tutte le volte che ci incontravamo, essendo rimasti comunque amici, ricordavamo la nostra band di dieci anni prima – quando ci divertivamo come pazzi – e ogni volta ci promettevamo l’un l’altro che “prima o poi ci saremmo riuniti per farci una bella suonata!”.
Nonostante le promesse, non è mai più avvenuto. Non ho toccato corda di basso o di chitarra da allora, né tasto di pianoforte, né prodotto musica.
Dieci anni passati a pensare che le cose sarebbero cambiate. Che almeno col mio amico chitarrista ci saremmo, prima o poi, messi d’accordo per suonare insieme una “sambetta”, qualcosa di non troppo complicato per me, visto che la mancanza di sensibilità delle dita della mano sinistra aumentava. Ma niente continuava a succedere.
Il basso nero mi guardava con la sua faccia da professore universitario in pensione – o l’espressione arcigna di un giudice di altri tempi – e con un’aria stupita che non si capacitava del perché l’avessi relegato in un angolo della stanza, e così faceva anche l’altro basso, quello bianco, un ragazzino con un atteggiamento quasi spavaldo, più sorridente, quei sorrisi maliziosi e quasi mascalzoni che sorprende vedere insieme a un abito dimesso, quasi un saio candido. In silenzio.

Mettiamola così: da quel periodo in cui stavo con quella donna che ho amato così tanto dieci anni fa, non mi è più capitato di avere emozioni così forti come quelle che lei aveva saputo regalarmi.
Quando il nostro rapporto è finito, tutto ha cominciato ad assumere un sapore e una ragione diversi. Come probabilmente succede necessariamente in tutte le storie finite.
Persino il ricordo di lei, della sua persona e del suo modo di essere, aveva tratti differenti.
Anche se quando se n’è andata ho pianto singhiozzando in un modo che non ricordo di aver sentito neanche da neonato. Un neonato sa comunque più chiaramente di un adulto perché singhiozza. Un adulto, specialmente se maschio, cerca di nascondersi e rimuovere le cause del pianto. La differenza, se ci si pensa bene, è tutta lì: l’adulto si vergogna.
Io, per fortuna, no. Neanche quando ho pianto davanti a lei, che mi coccolava come se mi amasse ancora. “Don’t cry, don’t cry!” mi diceva carezzandomi la testa. Non so se mi abbia ferito più quello o l’abbandono che, nonostante le carezze e le coccole, è avvenuto implacabilmente.
E io ci ragiono sulle cose. Mi è necessario soprattutto per capire quello che è avvenuto dentro di me e che cosa ha provocato un dolore così forte, per continuare a camminare verso una direzione. Che non sia una direzione qualsiasi. Che sia una soluzione giusta anche per me.
Ma quando intraprendo una strada, è sempre senza ritorno: nella migliore delle ipotesi le sofferenze che mi hanno fatto incamminare verso un posto più decoroso per me sono sempre e comunque lì a mistificare tutto, a confondere quel panorama nuovo e diverso che ora guardo ma non riesco a vedere, soprattutto se guardo dietro di me (o dentro di me: fa lo stesso!).
E infatti quando, dopo alcuni anni, mi disse che stava riconsiderando la nostra storia e aveva pensato alla possibilità di tornare insieme, mi è scappato da ridere.
Eh, già! Le ho praticamente riso in faccia.
Ma lei non dev’esserne accorta, perché era una chat online, dove puoi scrivere un “LOL” che può essere riferito a tutto e può significare tutto. Per quanto l’amassi ancora, per quanto morissi dietro a lei, la scintilla – quella cosa fenomenale che ci fa sentire speciali qualsiasi cosa e qualsiasi persona – si era in qualche modo spenta. E poi, come dicono gli americani: “Mi fai fesso una volta, è colpa tua. Mi fai fesso due volte, è colpa mia!”. Come d’altronde diceva anche lei, che è americana! E quindi deve comunque aver capito il concetto o intuito qualcosa. Infatti non è più tornata sull’argomento.
Il ricordo della nostra storia insieme si era trasformato in una scomposta sequenza di fotogrammi che aveva perso completamente il suo senso e, benché prima e dopo di lei non avessi mai avuto una donna con la quale mi fossi divertito così tanto, non riuscivo a pensare a lei come a una persona con uno spessore, con la profondità di cui avevo bisogno e che da allora era diventata invece una delle mie priorità.
Ero certo che un eventuale e ulteriore tentativo per rimettere in piedi la nostra storia sarebbe fallito per le stesse ragioni per cui era già finita.
Ma il mondo è così. I giovani si sentono forti, perché hanno delle certezze; i vecchi si sentono saggi perché hanno delle certezze.
Ammetto, mio malgrado, di essere un generoso: le cose che amo mi piace prestarle, condividerle il più possibile. Dare in prestito libri che mi sono piaciuti, DVD, CD e dischi che ho amato, a persone che ritengo valide e talentuose, soldi (qualora ne avessi) a chi ne ha bisogno. Lasciamo stare quello che ho fatto per quella donna americana anche dopo che ci siamo lasciati e persino dopo aver saputo che aveva un altro uomo – e naturalmente molto prima di quella sua “riconsiderazione della nostra storia” -. L’ho fatto per amore e senza aspettarmi niente in cambio.
Non che mi piacesse l’idea di condividerla con lui. Amo condividere le cose, non altrettanto le persone!
E per quanto riguarda le cose si tratta più spesso, mio malgrado, di un regalo, perché puntualmente dimentico a chi ho prestato “quel libro o quel CD o quell’harddisk o quel trapano Bosch…”; e di solito chi mi sarebbe – in teoria – debitore, “dimentica” a sua volta di riportare indietro ciò che doveva essere un possesso momentaneo.
Vecchiaia incipiente? non lo so. Ma ero così anche a quindici anni.
Mettiamola così: forse le cose che presto sono così belle… che chi ne viene in possesso stenta a separarsene, fino a considerarle sue.
E fatalmente quelle persone scompaiono subito dopo dalla mia vita.

Non bisogna lasciarsi confondere: un basso non è una cosa materiale!
Non è fatto di carne, ma se il manico è ben fatto, sembra di toccare un osso coperto da uno strato leggero di pelle soffice e vellutata. Così come afferrare per un braccio una persona ci fa sentire in contatto con questa, ci fa sentire il padre che fa attraversare il proprio figlio, ci fa sentire l’amante che desidera con passione il contatto con la propria donna, afferrare gentilmente il manico di un basso lo fa esprimere e rende possibile l’espressione della nostra passione attraverso le sue corde.
Oltre tutto possiamo appoggiare l’altro nostro braccio sul suo corpo legnoso, come sulla spalla ossuta di un amico quando, alle quattro di mattina, si fanno discorsi che mai faremmo durante il giorno.
Il basso vive con noi, aspetta pazientemente di essere preso con passione come una donna aspetta il suo marinaio che torna a casa dopo un lungo periodo di navigazione.

In altre parole: per molte ragioni familiari ho dovuto rinunciare allo studio/ufficio in casa e alla camera da letto, per traslocare il tutto in una sola stanza, perché ce ne serviva una in più.
C’era fretta allora. Tutti i mobili della camera da letto sono stati momentaneamente messi fuori in giardino. Mia sorella e io rimettevamo a nuovo la stanza unica che mi avrebbe accolto con tutti i miei oggetti, i miei libri, i miei computer, i miei strumenti, i miei mobili. E per chissà quale motivo, siamo stati presi dalla frenesia di vedere le cose a posto e abbiamo cominciato a lavorare in una concitazione fin troppo ansiosa.
Io sarei andato più lentamente, ma gli impegni di mia sorella come insegnante erano un forte impedimento ai miei tempi che di solito sono invece geologici: settembre era ormai alle porte.
Ogni trasloco per me è sempre stato un affronto. Buttare cose che avrei conservato ma che, con gli spazi ridotti, non si possono più tenere. Non tanto i ricordi, di cui niente o nessuno mi costringerà mai a liberarmi, quanto oggetti ancora funzionanti che per mancanza di spazio bisogna trovare il modo di piazzarli da qualche parte, darli a qualche amico o buttarli.
Era qualche giorno che non vedevo il basso nero, ma non essendo tra le mie priorità impellenti, non ci avevo neanche fatto caso se non con la coda dell’occhio del mio cervello.
Avevo però la mia stanza, anzi le mie due-stanze-in-una da mettere a posto e questo mi prendeva tutta l’energia e tutta l’attenzione.

In breve: un mio caro amico aveva bisogno, per un suo spettacolo teatrale, di musicisti dal vivo – proprio di un bassista! – e ha segnalato il mio nome agli altri due, un chitarrista e un batterista, che insieme agli attori facevano già parte della compagnia. E’ stato inutile dirgli che non avrei potuto, che non sarei stato in grado di suonare, dopo dieci anni di inattività, che le dita della mia mano sinistra erano compromesse. “E’ musica facile,” mi dice “musica napoletana. Per te che hai sempre suonato Jazz non ci saranno problemi!”.
Allora ho cominciato a rifletterci su. Se doveva esserci un cambio nella mia vita, a cominciare dalla camera da letto e dallo studio, perché non cavalcare l’onda di queste novità tutte insieme?
“Va bene”, ho promesso.
Appena è andato via, ho iniziato subito a predispormi per studiare e rimettermi in forma. A guardarmi intorno e prima di tutto a trovare gli strumenti per cominciare. Naturalmente il basso bianco spiccava, almeno per il suo colore, tra il casino degli oggetti messi a caso qui e là, in casa e nel giardino, e non ho pensato affatto a quello nero.
E poi, tutto sommato, il basso nero – un Ibanez Roadster comprato negli anni ’80 -, un bellissimo strumento con un manico più lungo degli altri, non l’avrei portato in giro tanto volentieri. Era più un cimelio, un ricordo, un sentimento: il mio primo basso comprato, totalmente mio e che non mi fosse stato prestato.
L’altro, un Fender Jazz Squier bianco avorio, sarebbe stato più “di presenza” e forse più adatto a un pubblico teatrale.
Comunque sia, studiavo su quest’ultimo e il pensiero del primo non mi ha neanche sfiorato il cervello se non quando mi è venuto il dubbio che forse avrei potuto studiare meglio e rinforzare più rapidamente le dita usando la tastiera più larga e più lunga, quindi più impegnativa, dell’Ibanez.
Ma le stanze erano scombinate, gli oggetti prima contenuti in due ambienti erano un po’ dovunque: chissà dov’era?
Ancora la fretta di veder conclusa una mia aspettativa, una mia sfida.
Dapprima ho cercato senza neanche pormi il problema, anzi aspettando di vederlo comparire da un angolo, dall’interno di un armadio, da qualche posto coperto di roba accatastata.
Non lo cercavo davvero, tuttavia ogni tanto mi tornava alla mente.
“Bah! l’avrò messo certamente al sicuro dentro la sua custodia, sopra a un armadio!”. La mia memoria era vuota di immagini, così come la custodia dove avrebbe dovuto essere.

E’ buffo come a volte la mente umana funziona: mi pareva adesso di ricordare di averlo prestato a qualcuno. Ma non ricordavo più a chi!
Anzi, mi pareva di ricordare esattamente la frase che avevo detto a questo “qualcuno”, consegnandolo nelle sue mani: “A questo basso tengo più della mia vita!”. Ma la faccia della persona a cui l’avevo prestato non riusciva a fare capolino nella mia mente.
Un tarlo cominciò a rodere la mente.
Mi pareva di ricordare perfettamente quella frase, quel momento.
Eppure c’era qualcosa che non mi tornava. Infatti ho chiesto a tutti gli amici che incontravo e che potevano essere interessati ad avere un basso, ma tutti hanno risposto di non aver mai avuto l’esigenza di un tale prestito.
Non è che abbia così tanti amici, allora – una volta esaurita la lista – ho cominciato persino a telefonare e a ricontatttare gli stessi amici, per avere la certezza.
Nessuna.
Anzi una: che i miei amici non avevano il mio basso. Che non l’avevano neanche gli amici dei miei figli che ogni tanto erano venuti a trovarmi.
Panico.
E se l’avessi momentaneamente messo in giardino per consentire di liberare la stanza?
No. Non c’era.
Ho persino aperto la custodia del basso Fender che, essendo più corta, non avrebbe mai potuto contenere un Ibanez oltretutto con un manico più lungo del normale. Ma le pensi proprio tutte, anche quelle impossibili, quando sei preso da quel vortice di pensieri e sensazioni che lentamente fanno posto alla consapevolezza di aver perso qualcosa che ami.
Buffo, come funziona la mente umana.
Non c’è. Non c’è. Non c’è!
Dov’è finito?
E allora mi sono ricordato molto precisamente di quella notte passata, pochi giorni prima, tra pensieri e bestemmie, in cui ho udito distintamente, nel dormiveglia, un leggero tramestio che proveniva dal giardino. Un gatto? Forse. Ho anche sentito un suono metallico, come una corda tesa sfiorata da una mano. La corda di un basso? Il mio basso?
Oddio, no! non può essere!
Ma allora era andata davvero così? E se l’avessi messo fuori per una notte, non sapendo dove metterlo e “momentaneamente”, nella concitazione di portare dentro e fuori i mobili, sulle cataste di roba, scrivanie smontate, armadi, oggetti vari? nella fretta di mettere a posto tutto?
Nelle mie allucinazioni notturne, mi è tornato alla mente e mi ricordavo perfettamente il mio gesto che adagiava il basso su una catasta di mobili.
Era lì, era lì! Il maledetto bastardo, il ladro!, passando di giorno, aveva adocchiato il mio basso nero che giaceva sui mobili mentre aspettava pigramente di essere messo a posto. Il criminale – uno zingaro? un drogato che avrebbe venduto la merce per poche lire pur di farsi una dose? un giovane musicista che non aveva soldi per guadagnarsi un basso? – era ripassato per accertarsi che il succulento bottino – senza alcuna protezione alle tre di notte – fosse ancora lì, aveva scavalcato la recinzione del mio giardino, l’aveva sfiorato con le sue dita luride e io l’avevo sentito!

Era andata così: e quella specie di sogno, quella visione allucinata durante il dormiveglia era la mia prova.
Sapevo cosa e come fosse successo, anche solo per averlo visto e sentito in uno stato di trance.
E le sensazioni diventavano sempre più forti, fino a sepperlire ogni speranza.
L’avevano preso. Qualcuno stava godendo di una fortuna inaspettata, di un suo proprio balzo coraggioso in un giardino altrui, mentre io ero lì quasi intontito dalla perdita. Non era più mio, quell’amato basso.
Il mio vecchio, caro amico.

Il periodo che è seguito dopo quel furto mi ha così macerato da cambiarmi interiormente forse in un modo irreversibile.
Quando ami qualcosa o qualcuno, hai la responsabilità di averne cura. Io avevo fallito in questo.
E non solo.
Un po’ come era fallito il mio sentimento per quella donna americana. Un po’ come quella volta del tamponamento, in cui ero talmente disgustato dalle parole del figlio di papà, che non avevo pensato a prendermi cura di me stesso e a farmi analisi più approfondite per cercare subito di chiedere il pagamento di un grave danno come quello che si è rivelato più tardi. Un po’ come ho fallito in tante cose nella mia vita, non essendo capace a tenerle con me.
La vita di fallimenti ti passa tutta davanti e soffoca qualsiasi cosa si trovi di fronte.
Persino quei successi, che in effetti ci sono stati, ma che di fronte a una frana inarrestabile vengono sepolti da quella montagna di sofferenze.
E nell’amore, no!, non potevo aver fallito così tanto! Non si trattava solamente di un basso. Non si trattava solamente della musica. Non si trattava solamente di una donna. Neanche di due, di dieci, di cento donne!
Sono quei momenti in cui ti chiedi chi hai veramente amato. Nessuno? Niente? Può darsi.
Era come se avessi avuto la sensazione di non avere mai più la possibilità, la voglia, l’amore necessari per accendere ancora una nuova scintilla.
Perché quella scintilla, io – quello che tanto crede di aver amato! -, non so più cosa sia. Se mai l’ho saputo.
Non so quindi neanche più come accenderla, dove, quando, perché.
E allora che il ladro si prenda il mio basso!
Che lo zingaro ci faccia qualche soldo! Che il drogato ci si faccia un buco, una dose! O il giovane musicista diventi un bassista migliore di quello che sono stato. E che l’americano faccia felice una donna che io non sono stato capace di amare fino in fondo. Se di “amare o non amare fino in fondo” si è trattato.
A nulla è valso il finale della storia, se vogliamo persino comico nella sua tragicità.
Mia sorella ha telefonato a sua figlia, che si è da un po’ di tempo trasferita a Milano con il suo compagno. Parlando anche con lui, le è venuto in mente di chiedergli se per caso avesse visto il mio basso nero. “Certo,” ha risposto lui “ce l’ho io: me l’ha prestato tuo fratello alcuni mesi fa! Perché…?”.
E quel suono di corda tesa in giardino… chissà cos’era. E quella precisa sensazione di un mio gesto che adagiava il basso su una catasta di mobili, la pura invenzione di un cervello che non vuole vedere la verità in un momento di affanno.
Chi ama non può non avere memoria. Non può non avere cura. Non può non avere presenza.
E allora quell’ “Addio, vecchio mio!” è per me.
E’ per tutto ciò che ho creduto di amare nella mia vita. E sono quasi certo – ma come vorrei che non fosse così! – che se mai dovesse ricapitarmi l’occasione di amare ancora, di avere una passione, di voler tenere qualcosa il più a lungo possibile, mi riderò in faccia.
Addio, vecchio mio.